La rinuncia al lavoro in banca

La rinuncia al lavoro in banca: un felice colpo di testa

"Due strade divergevano nel giallo bosco. Mi dispiacque non poterle percorrere entrambe, essendo un solo viaggiatore, a lungo indugiai fissandone una, più lontano che potevo fin dove si perdeva lo sguardo...Lo racconterò con un sospiro da qualche parte tra molti anni: due strade divergevano in un bosco ed io - io presi la meno battuta, e questo ha fatto tutta la differenza." Robert Lee Frost

Sono davanti alla bacheca della scuola superiore Vittorio Emanuele II. Scorro con l'indice, vedo il mio nome, seguo la riga fino al voto 60/60. E improvvisamente tutto ha cambiato prospettiva...

Ma partiamo dall'inizio

Era già da un po' che l'idea che la vita potesse essere ridotta a poche cose che tutti ambiscono, ma che, per me, non significavano nulla, mi tormentava. Non riuscivo a credere che avrei studiato, lavorato, mi sarei sposata e avuto figli, vivendo un copione già scritto.
Con questo non voglio dire che la famiglia e la carriera non siano cose importanti, anzi tutt’altro, ma avevo la perenne sensazione di vivere la vita che qualcun altro mi aveva imposto, una vita che non riconoscevo, una vita che non era la mia.
Da bambina ero molto vivace e non riuscivo a stare ferma. Ero ubbidiente, brava, ma dovevo muovermi: ero sempre a testa in giù arrampicata su tutti gli alberi che incontravo e per gioco mi arrampicavo persino sui pali della corrente elettrica.
Non era facile starmi dietro, anche grazie al fatto che ho trascorso i miei primi anni di vita in campagna con la nonna, correndo nei campi, rubando uova dai pollai e passando la maggior parte del tempo giocando con la mia amica Elena in un luogo angusto e pericoloso come il cimitero delle macchine!
L'impatto con la scuola fu scioccante, non tanto per lo studio, ma perché ero costretta a rimanere seduta per 4 ore di fila su una sedia. Non riuscivo a farlo, e appena la maestra si girava, scappavo subito sotto i banchi o camminavo sopra i tavoli o mi infilavo da qualche parte nell'aula.
La maestra fu molto comprensiva e si inventava ogni giorno qualcosa per farmi scaricare l'energia, capendo che non era né un capriccio né una malvagità, ma solo un'esigenza dovuta a 6 anni di completa libertà di movimento.
Le medie andarono abbastanza lisce, ormai mi ero abituata a stare in mezzo alla civiltà e avevo capito bene ciò che potevo o non potevo dire, e questo mi semplificò molto il grosso delle relazioni umane.

Un bivio fondamentale

Il primo vero bivio nella mia vita ci fu quando dovetti scegliere la scuola superiore. Amavo la matematica e le scienze, in cui ottenevo ottimi risultati, più che le materie letterarie. Mi fu consigliato di frequentare il liceo scientifico, ma all'epoca non si parlava ancora di orientamento e i ragazzi non venivano supportati nella scoperta dei propri talenti.
Così, in maniera del tutto irragionevole mi iscrissi a ragioneria.
Studiai stenografia, contabilità, diritto bancario e altri argomenti che non mi entusiasmavano, ma mi applicavo ugualmente e tornavo a casa con ottimi risultati. Non ero uno di quegli studenti che prendevano voti alti senza sgobbare, al contrario! I risultati erano frutto di pomeriggi trascorsi a studiare, sottolineare, ripetere le lezioni, fare riassunti e incidere nella memoria tutte quelle nozioni così fondamentali, almeno così sembrava, per la mia formazione.
Ho ancora vivo il ricordo di quando andai a vedere i risultati della maturità.
Mi sono avvicinata e, quando ho letto quel fatidico numero 60/60, sono scoppiata a piangere. In quell'istante, qualcosa all'interno di me si è spezzato, non so dire cosa, ma è come se quel traguardo fosse stato solo un fuoco di paglia, un obiettivo mai sognato, raggiunto il quale, la maschera che avevo indossato fino a quel momento per essere accettata dai miei e integrarmi nel mondo, è crollata.

E ora?????
Si, e ora??????

È come se avessi aperto gli occhi per scoprire di essere intrappolata in un incubo spaventoso. Mi sono resa conto che il percorso che avevo seguito fino a quel momento era completamente diverso da quello che avrei desiderato per la mia vita e che mi stava allontanando da ciò che realmente mi avrebbe fatta felice.

Ma quale era la vita che realmente volevo???

Non avevo una risposta e quanto più cercavo di capire quale fosse la mia vocazione, più mi confondevo e mi sentivo sopraffatta dall'ansia. In balia di questa angoscia esistenziale, senza avere minimamente idea di ciò che volevo fare della mia vita, continuai a fare esattamente ciò che tutti si aspettavano da me, ossia iscrivermi all'università.
A volte mi balenava l'idea di cambiare rotta e iscrivermi a scienze naturali, ma poi subito mi dicevo che non sapevo nulla di scienza e biologia e che, avendo fatto ragioneria, l'unica cosa sensata era proseguire con economia e commercio, e così feci... Proprio così, pur sapendo che quella non era la mia vita, non potevo far altro che sceglierla, perché mi ero allontanata così tanto dalla mia essenza, che brancolavo nel buio senza aver il coraggio di cambiare, senza aver il coraggio di scegliere qualcosa di diverso.

Una grave depressione portò il buio fuori e dentro

L'incognita del futuro, insieme alle sue molteplici possibilità, mi toglieva il fiato, e la cosa si spinse talmente avanti che, senza neppure accorgermene, iniziai a scivolare in una bruttissima e profonda depressione. Ogni tanto affiorava il ricordo di quella Federica bambina spensierata che giocava nell'aia dei polli in campagna e nel cimitero delle macchine. In quella campagna piemontese dove abitava un anziano e distinto signore che, quando mi vedeva piroettare nel giardino, continuava a dirmi che da grande avrei fatto l'insegnante di ginnastica... Eh sì, proprio così, ci aveva visto lungo, ma non poteva sapere quanto tortuoso sarebbe stato il percorso.

Lo stato d'ansia si trasformò in un perenne stato di panico che mi soffocava ininterrottamente e durò per un tempo che mi sembrò infinito. Due anni assurdi.
Ricordo solo che mi mancava l'aria e avevo un senso d'angoscia che non mi lasciava mai. Confesso che più volte mi sono fermata per cercare di raccogliere il poco coraggio rimasto per togliermi la vita. Lo dico con un senso di dolore e di vergogna, ma ho deciso di raccontarmi e non avrebbe senso, non farlo fino in fondo.
Fui seguita da uno psichiatra che arrivò a prescrivermi 11 pastiglie di psicofarmaci al giorno, l'ansia era un po diminuita, ma la verità è che la chimica mi teneva intorpidita di giorno e mi faceva dormire di un sonno non sonno di notte e io mi sentivo aliena in un mondo sempre più lontano.

Quando tocchi il fondo inevitabilmente o muori o ti rialzi

Non so cosa accadde di preciso, ma un giorno spuntò fuori quell'istinto di sopravvivenza che mi scosse. Non potevo più vivere in quel modo, non era vita. Avevo 19 anni ed ero morta dentro! Allora decisi che, per prima cosa, avrei tolto tutte le pastiglie dello psichiatra, e lo feci così da un giorno all'altro, andando incontro a una serie di effetti da astinenza devastanti. Non riuscivo neppure a portarmi una forchetta alla bocca nei giorni successivi da quanto tremavo, ma ero determinata. La mia anima è come se si fosse risvegliata improvvisamente. Mi piacerebbe raccontarvi una storia più variopinta con un episodio speciale che diede il via a quel moto di rinascita, ma non ci fu nulla in particolare, semplicemente avvenne.

Nelle mie passeggiate senza meta, un giorno incappai in grandi manifesti che raccontavano di una scuola di Kung Fu dove si imparavano le arti marziali tradizionali cinesi, la cerimonia del tè e la meditazione. Ero affascinata da quel mondo e così decisi di fare il passo e entrai per la prima volta nella scuola, che frequentai per molti anni a seguire e dove scoprii la magia di "studiare il movimento"! Io che mi ero sempre sentita spezzata a metà: da un lato la voglia irrefrenabile di muovere il corpo, dall'altro il desiderio profondo di nutrire la mente, lì ritrovai per la prima volta l'unione tra corpo-mente-spirito. Nel frattempo continuavo a studiare all'università di economia e commercio, dove finalmente potevo sedermi anche in mezzo all'aula senza rimanere senza fiato e potevo interagire con gli altri compagni senza incorrere in crisi di panico. Non era certo quello che volevo, e ancora non riuscivo a mettere a fuoco un piano B o, meglio, il piano A, ma quanto meno avevo ricominciato a vivere!

Il concorso in banca

Un giorno i miei compagni di università mi informarono che erano usciti due concorsi: quello del San Paolo di Torino e quello della Cassa di Risparmio di Genova e Imperia.

"Figuriamoci", dicevo, "non ho certo intenzione di andare a levorare in banca!"

Loro, giustamente, mi guardavano stranamente chiedendosi perché mai mi fossi iscritta a quella facoltà se poi non miravo ad avere un posto come quello in banca, che all'epoca era uno dei più ambiti. Non era facile spiegare e pensavo che non mi avrebbero capita. Così nel tentativo di uniformarmi e di passare inosservata, per l'ennesima volta seguii tutti gli altri e mi decisi a iscrivermi, rassicurata soprattutto dalle parole di un compagno, che mi disse "Tranquilla, intanto se non hai delle raccomandazioni è impossibile passare il concorso! Lo si fa per fare esperienza, così quando farai quelli che valgono, sai come si svolgono".
Mi aveva convinta, sì, in effetti non era sbagliato come concetto quello di mettere il naso dentro all'aula di in un concorso.

Feci il primo di Intesa, tosto, tostissimo. Valevano addirittura le risposte sbagliate con un punteggio negativo. Non so come, ma fui tra i primi 100 iscritti che passarono agli orali! Mi accompagnò mio padre a Torino e uscita da lì dissi "è andata bene mi sembra" e mio padre: "allora nulla di fatto, ti conosco troppo bene, non hai mai detto una cosa così dopo un esame". Aveva ragione, non ero passata agli orali.
Dopo poco feci anche quello della Cassa di Risparmio, eravamo più di 4500 studenti nel padiglione della Fiera di Genova, quello che adesso non c'è più. Vidi subito che il livello e la difficoltà del concorso erano molto diversi dal precedente. Risolvo una parte, poi l'altra, poi l'altra, poi affronto i due temi liberi di economia bancaria: li so! Scrivo, controllo, rileggo e, sotto lo sguardo incredulo di molti, mi alzo molto prima della fine del tempo e consegno.
Dopo qualche mese arrivò a casa una telefonata: "Si, sono io, chi mi desidera?". "Chiamo dalla Cassa di Risparmio, lei ha passato il concorso."

Un tuffo al cuore, la mente che pulsa, no, non è possibile! Era solo per fare esperienza e poi i concorsi li vincono solo i raccomandati e poi eravamo in migliaia! "Ma è sicuro?" Emetto con una voce tremante "Sì, certo, le prenoto già le visite mediche, se vuole, e può recarsi presso la sede di... bla bla bla" 
La voce è ormai lontana...

STOP

FERMATI

DOVE STAI ANDANDO???

La rinuncia al lavoro in banca

"Posso parlarvi?"

Era una sera come tante altre in casa Valenti, ma quella sera le emozioni e i pensieri scossero tutti profondamente e ne sentimmo l'eco per tanti anni.
I miei erano come sempre seduti sul divano davanti alla TV: "Mamma, papà", iniziai, "non posso accettare il lavoro in banca e ho deciso anche di lasciare l'università. Non so cosa sarà della mia vita, ma questa che sto vivendo è una vita che mi rende profondamente infelice perché non onora chi sono e cosa posso dare".
Silenzio assordante, forse ero stata troppo diretta come al mio solito? Forse avrei dovuto indorare un pò la pillola?

Ormai era fatta.

Mia madre non mi parlò per giorni e per i successivi mesi ci fu una tensione che si poteva tagliare col coltello. Quando, da lì a due anni, inaugurai il mio primo centro polisportivo, lei non c'era, lo vide solo molti anni dopo.

Mio padre, quella stessa sera, seduto su quel divano senza distogliere lo sguardo dal monitor della Tv, ma presente con ogni sua cellula, mi disse:

"Senti una vocina dentro di te che te lo dice?" "Sì, papà" "Allora seguila, e non voltarti mai indietro"

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Federica Valenti

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